L'autunno, con il suo clima mutevole e i paesaggi che si spogliano, incarna simbolicamente la vulnerabilità umana. È la stagione in cui la natura si prepara al riposo invernale, abbandonando ciò che non è più necessario, come le foglie degli alberi. Questa transizione rappresenta un momento cruciale di trasformazione, e non solo per l'ambiente, ma anche per l'animo umano. Psicologicamente, l'autunno può essere visto come il periodo in cui siamo chiamati a fare i conti con la nostra fragilità, le nostre ferite, e i processi di perdita. Ma è anche un momento di introspezione e di preparazione per una rinascita futura, esattamente come accade nella natura.
In una chiave psicodinamica, la vulnerabilità è fondamentale nel percorso di crescita e cambiamento.
Proprio come gli alberi che perdono le foglie, gli esseri umani devono a volte "spogliarsi" di parti di sé stessi – vecchie abitudini, relazioni o credenze limitanti – per accedere a un nuovo equilibrio. L'autunno, quindi, è il simbolo di questa resa temporanea, necessaria per affrontare ciò che deve essere elaborato. Nel setting terapeutico, accettare la propria vulnerabilità è spesso un punto di svolta. Abbandonare la necessità di essere forti a tutti i costi apre lo spazio per l'integrazione di aspetti trascurati della psiche, così come la natura ci insegna che la perdita è un passo verso la rigenerazione (e questo vale, come vedremo, sia per la paziente che per la terapeuta).
Vulnus e opportunità: un punto di vista psicodinamico
Ma a proposito di vulnerabilità, sappiamo che la parola deriva dal termine latino "vulnus" che significa letteralmente "ferita" o "colpo". Questo concetto, nelle culture antiche, ha una risonanza che va oltre il significato fisico, toccando aspetti profondamente simbolici e mitologici legati alla vulnerabilità, al sacrificio e alla trasformazione. Le ferite, tanto fisiche quanto psicologiche, hanno spesso un ruolo centrale nei miti di molte tradizioni, assumendo significati legati alla crescita, alla sofferenza come via di redenzione o trasformazione, e alla connessione tra umano e divino.
Ferite Sacre e Trasformative nei Miti Greci
Nella mitologia greca, il tema del vulnus è intimamente legato alla figura di Achille, il più grande eroe della guerra di Troia. La sua storia è nota per la sua "invulnerabilità" e, allo stesso tempo, per la sua vulnerabilità critica. Achille era stato immerso nelle acque del fiume Stige dalla madre Teti per renderlo immortale, ma il tallone, per il quale sua madre lo teneva, rimase scoperto, rendendolo il suo unico punto debole. Questo "vulnus", il "tallone di Achille", divenne il simbolo universale della fragilità nascosta nell'apparente invulnerabilità. La ferita fatale che Achille subisce al tallone per mano di Paride non solo porta alla sua morte fisica, ma rappresenta anche l'inevitabilità della vulnerabilità umana, anche nei personaggi più eroici e potenti.
Questa vulnerabilità si estende anche alla figura di Ettore, il principe troiano che combatte contro Achille. Il destino di Ettore è segnato dalla sua uccisione per mano dell'eroe greco, che lo trafigge e lo umilia davanti alle mura di Troia. Anche in questo caso, il vulnus, la ferita mortale, simboleggia il passaggio dalla vita alla morte, un sacrificio necessario nella dinamica del mito per realizzare l'inevitabile discesa della città di Troia e il destino dei suoi abitanti.
Ferite e Vulnerabilità Nella Mitologia Nordica
Anche nella mitologia norrena, il tema del vulnus emerge come un elemento centrale, specialmente nella figura di Odino, il dio della saggezza, della guerra e della magia. In un atto di sacrificio volontario, Odino si ferisce da solo impiccandosi all'albero del mondo, Yggdrasil, per nove giorni e nove notti, trafitto da una lancia. Questo vulnus autoimposto ha lo scopo di acquisire la conoscenza delle rune, i segreti cosmici del potere magico. La ferita, quindi, non è vista solo come una forma di sofferenza, ma come un portale verso la saggezza e la comprensione dell'universo. In questo mito, la vulnerabilità di Odino diventa una fonte di potere, sottolineando l'importanza della ferita come strumento di trasformazione e accettazione profonda del fatto che “niente accade per caso” ma che ci richiede un ampio dispendio di energie. Questo aspetto è evidente nella stanza di analisi nella quale sappiamo che quanto più profondo e duraturo sarà il cambiamento atteso, tanto più dispendioso e oneroso sarà il lavoro che ci verrà richiesto per ralizzarlo. La conoscenza profonda acquisita da Odino è stata pagata a caro prezzo e con la capacità di accettare e abitare pienamente la propria vulnerabilità.
Ferite e Guarigione nei Miti Celtici
Nella mitologia celtica, il tema della ferita è legato a figure eroiche e re divini. Il Re Pescatore, una figura centrale nelle leggende arturiane e dei Graal, è un sovrano ferito che non può guarire, la sua condizione riflettendo lo stato sterile del suo regno. La sua ferita – solitamente alla coscia o al fianco – è un simbolo di vulnerabilità e impotenza, ma anche di un mistero sacro legato al potere del Graal. Il vulnus del Re Pescatore può essere guarito solo dal cavaliere puro che cercherà il Graal con cuore sincero e che non avrà paura di guardare in faccia la realtà del dolore, risvegliandoci da quel “torpore sociale” denunciato da Joanna Macy nel suo lavoro sulla speranza attiva
Nel mito del Re Pescatore, la ferita è un invito a intraprendere un viaggio interiore, un percorso di guarigione che non riguarda solo il corpo, ma l'anima e la terra stessa.
Il Vulnus e la Psiche: Un'Interpretazione Psicodinamica
Da una prospettiva psicodinamica, il "vulnus" può essere interpretato come una ferita emotiva o psicologica, una condizione che apre la via alla trasformazione. La vulnerabilità è spesso vista come un'esperienza dolorosa, ma è anche il luogo in cui avviene la guarigione e l'integrazione.
Le ferite simboliche rappresentate nei miti, che colpiscono tanto eroi quanto dei, possono essere lette come metafore dei traumi psicologici che ogni individuo deve affrontare nella propria vita.
La guarigione, tuttavia, non avviene attraverso la negazione della ferita, ma accettandola e trovando un modo per trasformarla in fonte di forza e saggezza.
La psicoanalisi, in particolare la psicologia del profondo di Jung, interpreta le ferite archetipiche come parte del processo di individuazione, in cui l'io deve affrontare le sue vulnerabilità per integrarle nella coscienza. I miti del vulnus parlano della necessità di confrontarsi con le proprie ferite per poter accedere a una forma superiore di consapevolezza e completezza.
Ecoterapia e Mitologia del Vulnus
Nel contesto dell'ecoterapia, il vulnus può essere visto come una parte essenziale della nostra relazione con la natura. Come esseri viventi, siamo inevitabilmente vulnerabili all'ambiente che ci circonda. Le ferite che subiamo – fisiche, emotive o ecologiche – ci mettono in contatto con la nostra interdipendenza con il mondo naturale e ci risvegliano alla nostra responsabilità di “essere con”. Le piante, gli animali e persino la terra stessa portano ferite, ma attraverso i cicli di guarigione della natura, ci insegnano che la vulnerabilità è una parte inevitabile del vivere.
Potremmo dire che il "vulnus", sia fisico che psicologico, è un tema centrale in molte tradizioni mitologiche. Da Achille a Odino, da Cristo al Re Pescatore, la ferita è sia fonte di sofferenza che porta d'accesso alla trasformazione e alla saggezza. Questo concetto di vulnerabilità non è solo una condizione umana, ma una condizione universale che attraversa il mondo degli dei e degli uomini, degli eroi e delle creature mitiche. In una chiave psicodinamica ed ecoterapeutica, il vulnus ci ricorda che la ferita, anziché essere un segno di debolezza, può essere la fonte stessa della nostra forza e guarigione, sia per l'individuo che per il mondo naturale.
Ma non basta. Credo che l’esperienza della vulnerabilità sia il passaggio necessario che un terapeuta deve riconoscere e attraversare per poter svolgere la sua funzione di psicopompo. Come un Hermes contemporaneo, il terapeuta si trova costantemente nella condizione di attraversare i territori dell’Ade del paziente (ma anche suoi propri), accogliendo con ciò anche la possibilità di attraversare con il paziente lunghi periodi di confusione, fatica, incertezza e dolore rinunciando alla pretesa di “guarire” offrendo soluzioni ma piuttosto capacità di abitare “gli altri regni”.
A tal proposito mi viene in mente un toccante passo del Diario di Etty Hillesum:
Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi, o almeno alcuni problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire. Forse, su questo punto, io sono davvero molto ospitale, a volte sono come un campo di battaglia insanguinato e poi lo pago con un gran sfinimento e con un forte mal di capo.
Etty Hillesum
Persefone e il mito della vulnerabilità
Uno dei miti più rilevanti legati a questo tema è il mito greco di Persefone. Rapita da Ade e condotta nell'Oltretomba, Persefone è costretta a trascorrere parte dell'anno nel regno dei morti, lontana dalla luce. Durante la sua assenza, sua madre Demetra, dea dell'agricoltura, lascia che la terra cada in uno stato di morte apparente, il che simboleggia l'inverno. Quando Persefone ritorna alla luce, la primavera riappare, portando con sé il rinnovamento. In questo mito, possiamo vedere un riflesso psicologico del ciclo di vita e morte psichica, in cui la discesa nell'oscurità e l'incontro con le parti più vulnerabili e nascoste di noi stessi sono necessari per far emergere una nuova vitalità.
La figura di Persefone rappresenta dunque un archetipo della vulnerabilità: costretta a vivere nell’ombra, diventa però una guida tra il mondo della luce e quello delle tenebre, integrando in sé entrambe le dimensioni. Dal punto di vista ecoterapeutico, la storia di Persefone ci ricorda che i cicli naturali – e quelli interiori – richiedono momenti di declino per consentire la crescita. È solo affrontando la vulnerabilità e il dolore del cambiamento che possiamo realmente rinascere, proprio come il ciclo stagionale dell'autunno apre la strada alla rinascita primaverile.
Un altro mito rilevante è quello legato a Dioniso, o il suo equivalente etrusco Fufluns, dio del vino, della natura e della follia creativa. La vite, pianta sacra a Dioniso, attraversa il processo della vendemmia, in cui l'uva viene raccolta e "distrutta" per produrre il vino. Questo processo di trasformazione, dove la pianta sacrifica una parte di sé per dare vita a qualcosa di nuovo, rappresenta simbolicamente il potere della vulnerabilità come forza creativa e rigenerativa. La vendemmia, associata all'autunno, simboleggia il momento in cui si raccolgono i frutti del lavoro e si accetta la fine di un ciclo per entrare in un altro. È una metafora potente per il modo in cui la vulnerabilità, se affrontata e accolta, può trasformarsi in saggezza e pienezza.
In un contesto ecoterapeutico, la natura diventa uno specchio per i nostri processi psicologici. La caduta delle foglie ci invita a riflettere sulle parti di noi stessi che dobbiamo lasciare andare per poterci rigenerare. Questo lasciare andare non è solo un atto di perdita, ma un passo necessario verso una nuova fase di vita, proprio come gli alberi che, perdendo le foglie, si preparano a nutrire le loro radici in profondità durante l'inverno.
In mitobotanica la vulnerabilità è associata all'immagine dell'albero stesso. Le querce, i faggi e gli olmi sono piante che, pur spogliandosi in autunno, mantengono una presenza imponente e radicata. Gli alberi, nelle culture antiche, sono simboli di saggezza e ciclicità. Radicati nella terra e proiettati verso il cielo, essi rappresentano l’equilibrio tra la forza e la vulnerabilità. Nell'autunno, l'albero lascia andare ciò che non gli serve più, un gesto che può essere interpretato come un atto di fiducia nei propri processi interni, sapendo che tornerà a fiorire quando sarà il momento giusto. In questa prospettiva, l’albero diventa un simbolo di resilienza, capace di attraversare la vulnerabilità senza perdere la sua essenza.
La relazione tra la flora autunnale e la psiche
Infiniti sono gli insegnamenti sui legami tra la flora autunnale e la nostra psiche che possiamo trarre da un approccio ecoterapeutico. Piante come l’edera, che rimane verde anche in autunno, sono state spesso associate alla resilienza e alla continuità della vita, persino in momenti di transizione. L’edera, che si arrampica e si avvinghia agli alberi o ai muri, rappresenta un simbolo di legame con ciò che è essenziale. In ottica psicodinamica, questo potrebbe essere interpretato come un modo per ricordarci che, anche nei momenti di vulnerabilità e cambiamento, abbiamo radici profonde che ci sostengono e ci permettono di crescere nonostante le avversità.
L’edera e i suoi miti
L'edera è una pianta che ha sempre affascinato l'umanità, associata a numerosi miti e simbolismi attraverso le epoche. La sua natura persistente, la capacità di aggrapparsi e arrampicarsi su superfici diverse, e il suo verde perenne hanno reso l'edera un potente simbolo in molte culture, con significati che spaziano dall'amore eterno alla resilienza, dalla fedeltà alla connessione con il divino e la morte.
Nella mitologia greca, l'edera era sacra al dio Dioniso (noto come Bacco per i Romani), il dio del vino, dell'estasi e della fertilità. Si racconta che, da bambino, Dioniso fu salvato dall'edera durante un momento di pericolo. Quando Era, la regina degli dei, cercò di distruggerlo per gelosia, Zeus nascose Dioniso in un ederaio per proteggerlo. Da allora, l'edera è diventata simbolo di protezione e immortalità. Le baccanti, seguaci di Dioniso, indossavano corone di edera durante le loro celebrazioni rituali, dove il vino e la danza portavano gli adepti in stati di estasi mistica.
L’edera, che avvolge e cresce intorno agli alberi e agli edifici, rappresentava anche per i Greci la dualità della vita e della morte. Le sue foglie sempreverdi simboleggiavano l'immortalità e la capacità di crescere anche nelle condizioni più avverse. Le sue radici che si attaccano saldamente a una base richiamavano l’idea di legami solidi, di fedeltà e amicizia, ma anche di dipendenza e attaccamento.
I Romani ereditarono molti degli stessi simbolismi dai Greci, ma aggiunsero nuovi significati legati all'amore e alla fedeltà coniugale. Le corone di edera venivano usate durante i matrimoni per rappresentare l’unione indissolubile tra i coniugi, simboleggiando la durata e la forza del legame. A causa della sua capacità di attaccarsi saldamente agli oggetti, l'edera fu vista anche come un simbolo di lealtà, devozione e attaccamento emotivo.
Oltre a ciò, l’edera era usata nei rituali funebri e associata alla morte, forse perché, come pianta sempreverde, rappresentava la continuità della vita oltre la morte. Veniva piantata nei cimiteri per simboleggiare il legame eterno tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Nei miti celtici, l’edera aveva una posizione di rilievo nelle credenze druidiche. I druidi consideravano l’edera una pianta sacra, collegata al ciclo delle stagioni e alla ciclicità della vita. Associata al mese di Gort nell'antico calendario arboreo celtico, l’edera rappresentava la ricerca spirituale, la resistenza e la connessione con le forze naturali.
La sua capacità di crescere in spazi ombrosi e in condizioni difficili la rendeva un simbolo di resilienza e adattabilità. Era vista come una pianta capace di superare le avversità e di prosperare nonostante le circostanze, richiamando così l'importanza della tenacia e della forza interiore.
Inoltre, l’edera era associata alla guarigione e alla protezione spirituale. I Celti credevano che la pianta avesse il potere di tenere lontano gli spiriti maligni e le energie negative, utilizzandola spesso nei rituali di purificazione e protezione. Nei boschi sacri, l’edera era rispettata per la sua capacità di avvolgere e proteggere, diventando simbolo di comunione con la natura e con le forze invisibili del mondo spirituale.
Mitobotanica dell’Edera
Dal punto di vista della mitobotanica, l’edera ci racconta storie di resilienza, crescita e legame con la terra. Crescendo sia al sole che all'ombra, essa rappresenta il potenziale di adattamento alle circostanze esterne. La sua capacità di avvolgere alberi, muri e rocce suggerisce un legame profondo tra l'elemento vegetale e l'ambiente circostante. In quest’ottica, l'edera simboleggia anche la capacità umana di integrarsi nel proprio contesto, di trovare sostegno nelle relazioni e nelle esperienze.
In ecoterapia, l’edera può essere vista come simbolo della persistenza della vita e della connessione con il mondo naturale. La sua crescita apparentemente inarrestabile, che segue una traiettoria fluida e adattabile, suggerisce l’importanza di sviluppare una relazione resiliente con l'ambiente, capace di crescere anche nelle situazioni più avverse.
L'edera, pianta umile e tenace, racchiude in sé una vasta gamma di simbolismi mitologici e culturali. Dalla protezione e l'immortalità all'attaccamento emotivo e alla dipendenza, l’edera continua a ispirare e affascinare per la sua capacità di intrecciare la vita e la morte, il passato e il presente, la fragilità e la forza. Come i miti legati ad essa ci insegnano, l’edera è un simbolo vivente della capacità di adattarsi e persistere, anche nelle condizioni più difficili, rimanendo verde e vitale attraverso il tempo e le stagioni.
In conclusione, la vulnerabilità umana, l'autunno e i miti ad esso collegati ci offrono una ricca trama simbolica da esplorare sia psicodinamicamente che ecoterapeuticamente. La natura ci insegna che la vulnerabilità non è una debolezza, ma una fase necessaria per rinnovarsi, e i miti ci offrono archetipi e storie in cui possiamo riconoscere i nostri stessi cicli di trasformazione. Essere vulnerabili, come gli alberi in autunno, significa prepararsi a rinascere più forti e autentici, radicati nella consapevolezza dei propri processi interni.
biblioteca selvatica
📚"Il mito della bellezza" di Naomi Wolf. Questo libro affronta il mito della bellezza nella cultura moderna e come esso crei vulnerabilità nelle donne, condizionandole attraverso standard irrealistici. Wolf analizza il ruolo dei miti sociali che rinforzano aspettative irraggiungibili, limitando la libertà delle donne
📚”Il potere del mito" di Joseph Campbell. In questo classico, Campbell esplora i miti di diverse culture e come questi plasmino le esperienze umane. Il libro spiega il potere dei miti nel dare significato alla vita e nel connettere gli individui ai valori collettivi, esaminando come la mitologia influenzi anche la nostra vulnerabilità umana.
agenda corsi
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Chi ti scrive
Mi chiamo Francesca Campagna. Sono una psicologa clinica dharma oriented con approccio relazionale e un’ecoterapeuta profondamente innamorata del respiro dei boschi e del loro potenziale terapeutico. Sono specializzanda in psicoterapia, presso l’Istituto di Psicanalisi Relazionale e Psicologia del Sé a Roma.
Vivo e lavoro a Selva Madre, in una casetta di pietra nel fitto di un bosco di castagni e querce, in Toscana. Il mio amore boschivo è maturato negli anni, arricchendo la mia vita al punto da avere deciso di farne una vera e propria professione che meticcia linguaggi e suggestioni, un po’ come fanno certi boschi, appunto, nelle zone liminali che separano un ambiente forestale da un altro.
Per me il bosco è una sorprendente metafora del vivere umano, con le sue luci e le sue ombre, le faggete che elevano lo spirito e le praterie di felci che invitano a sognare.
Oggi mi occupo di supporto psicologico e ho creato un’accademia per la diffusione e la sensibilizzazione ai temi ecoterapeutici che fonde insieme la psicologia del Sé, la mindfulness, i bagni di foresta l’ecopsicologia e lo psicodharma, in un approccio unico e caratterizzante: la Mindwoodness®.
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